Quali alchimie fanno sì che uomini non più giovani si ostinino, con fervore di amanti, a guardare la nomade luna? Quali erramenti li conducono nelle terre del silenzio, per ascoltare, fidando nella buona memoria di quella, racconti che l’oblio, per rapace ingordigia, vorrebbe precipitare nell’abisso? Sono uomini di parola quelli che, laconici, curano l’arte deliziosa dell’ascolto. Sanno della solitudine, di come quella educhi alla verace conversazione. Non sono atterriti dal parlare con se stessi; non sono fatti indifferenti al pensare. Da veri filosofi si meravigliano, provano vigoroso stupore, soprattutto per le cose antiche e consuete. Alzano gli occhi al cielo, per guardare le stelle, a molte abbaglianti tentazioni resistendo. Ti chiedi quale vocazione alimenti quell’austera letizia del contemplare. Non è la stanchezza delle cose del mondo, il distacco sprezzante, l’indifferenza per esse. La gioiosa esultanza e il grido dolorante ricevono sincera accoglienza in quegli spiriti. Tu non li trovi estranei alla terra, agli uomini e alle loro alterne vicende. Grande, anzi, è la commozione di fronte
alla singolarità dei loro volti. Quando li incontri, le parole non vanno disperse, né i dialoghi trascorrono in soliloqui paralleli. Lascia una traccia quel discorrere: nel congedarti tu non sei quello che eri prima d’incontrarli. Si compie il miracolo della parola. Intuisci, allora, che quella sempre rinnovata emozione di fronte allo spettacolo della luna è il naturale risvolto di una sensibilità che, non ignara della condizione umana, anela a svelarne l’arcano, affascinata dal mistero ultimo della vita e della morte, turbata dal constatare come, nella storia, all’operosa forza creativa dell’intelligenza si opponga la sorda insipienza della violenza. Una saggezza pensosa, frutto maturo di una coscienza mai persuasa alla legge della prestazione, è quello che raccogli, quando, per avventura, t’imbatti in questi uomini. Avverti il travaglio della ricerca, lo slancio ideale, la forza generosa dell’immaginazione, la fiducia dell’intelligenza, la disciplina dello studio, la capacità di indugiare sulle cose senza asservirle al calcolo dell’utile. È questa libera disposizione della mente che li spinge oltre il conformismo e che dischiude allo sguardo regioni mai sondate del pensiero e forme mai esplorate dell’arte. Il sublime che alberga nella loro coscienza, affrancandoli da servitù e paure, rende autentica la loro espressione. Non prendono istruzioni da coloro che fanno mercimonio dell’arte: adusi, come sono, alla bellezza, fanno poco conto del successo e di altre miserie.
Fu uno di questi artisti meditativi, che, in una conversazione non recente, ebbe a dirmi che l’arte, in qualsiasi modo si esprima, rappresenta il tentativo di accrescere la qualità del mondo attraverso le opere e che queste incarnano l’essenza stessa del dono. Su quest’ultimo punto, se la memoria non m’inganna, tali furono le sue parole: «Donare», dichiarò quel virtuoso, «è un puro atto di generosità. Esso è fuori da ogni rapporto di potere, di soggezione e di obbligo. Il dono non è imposto da convenzioni: risponde solo a un’istanza interiore. Generosità e libertà sono anche caratteri imprescindibili della creazione. L’artefice mette al mondo opere a beneficio degli uomini ed esse, una volta realizzate, vivono una propria vita, indipendente da quella di chi le ha prodotte. L’impulso a crearle nasce come un bisogno che non è necessitato da fattori estrinseci. Gli uomini sensibili gioiscono della loro esistenza, le contemplano come cose che hanno un valore in sé, né pensano di dover ripagare chi gliele ha rese disponibili. L’artista, a sua volta, le concepisce e si applica alla loro realizzazione senza subordinare il suo impegno a uno scopo esterno alla creazione stessa. L’opera d’arte è l’espressione più alta del donare, perché incorpora l’amore e l’impegno del donatore, perché è unica e irripetibile, perché è destinata agli uomini, perché accresce la qualità del mondo e ci spinge a immaginare una condizione di universale bellezza
In forza di questa definizione, l’opera di Ludovico Maria Fusco si para davanti a noi come un dono veramente prezioso. Una grandiosa epopea per immagini della luna è quella che egli offre all’umanità. Niente di simile – così mi sembra – si era mai visto finora. Trentuno tele e un grande trittico che descrivono i diuturni abboccamenti dell’artista con quell’astro, che, nonostante le cognizioni acquisite dalla scienza astronomica, continua, con la sua mutevole forma e luminosa bellezza, a fascinare lo sguardo di quei pochi non disposti a rinunciare al lusso, semplice e meraviglioso, di intrattenersi nel sommesso colloquio col cielo. Di questo, infatti, si tratta: del racconto dell’interiore conversazione che l’artefice intrattiene con la luna, alla quale l’indole sua interrogativa pone domande sulla condizione dell’uomo, sul destino di quest’essere che ama e odia, soffre e gioisce, costruisce e distrugge. Una narrazione morfocromatica nella quale essa è ben altra cosa dal satellite inespressivo sottoposto ai moti ciclici e alle leggi fisico-meccaniche del sistema solare. L’immagine sua è quella di un corpo vivente e senziente, capace di imprimere in sé i segni del presente e del passato, le cicatrici antiche e le ferite ancora sanguinanti, quelle degli olocausti e dei conflitti, quelle dell’egoismo, dell’indifferenza, dell’insipienza, dell’ipocrisia e del tradimento. Capace di farsi interprete dell’amore, del sogno e della speranza. Le sue mutazioni riflettono quelle della mente e dello spirito. Sono cicliche e lineari, spaziali e temporali, orizzontali e verticali, sincroniche e diacroniche, endogene ed esogene; sono cromatiche, dimensionali, riguardano la densità della materia e l’intensità della luce. La linea curva e la forma sferica coesistono con la linea retta e con la superficie piana; la continuità dei campi cromatici convive con la discontinuità delle linee di frattura; le superfici accolgono elementi puntiformi; i contorni netti si alternano a quelli sfumati ed evanescenti; le campiture, interne ed esterne al disco raggiante, ora si presentano uniformi, ora sono pervase da tracimazioni di materia colorata che accentuano il carattere palpitante di questo mondo “antropogeoselenico”, dove la luna, la terra e l’uomo sembrano simpateticamente animati da un unico universale respiro. La luna partecipa all’esistenza dell’uomo, fino a compenetrarsi con lui, a somatizzarne gli stati fisici e mentali, a provarne le sensazioni, i sentimenti, i dubbi, le contraddizioni, i drammi, le tragedie, le passioni, gli ideali, i sogni, i vagheggiamenti, le sofferenze, le gioie, le speranze, le illusioni. Essa assorbe le forme del paesaggio, i profili delle città, le tessiture ortogonali dei muri, il gioco di luci e di ombre dell’architettura. La sua materia è talora irrimediabilmente contaminata da ordigni di morte; talora devastata dall’irruzione del dolore e del pianto; talora costellata di tracce di un passato che affiora dai recessi della memoria. L’astro è quasi necessitato a moltiplicarsi per accogliere nel suo seno, molteplici e multiformi, le manifestazioni dell’umana vicenda nel mondo.
La luna di questo artefice condivide il destino dell’uomo quasi facendosene carico. Tuttavia, il carattere patematico della ricerca si risolve sempre in forme discrete e serene, tali da lasciare all’osservatore spazio per la percezione critica, senza mai debordare nella ridondanza espressiva, estranea al senso originario dell’arte. Per questo e per altri motivi l’opera di Ludovico Maria Fusco è costituzionalmente destinata a passare sotto silenzio. Essa è inattuale, non essendo concepita per l’obsolescenza consumistica, né per gratificare gusti e aspettative di un sistema economico-mediatico proteso a riprodurre se stesso e a conservare miopi interessi. Essa è per costituzione arkaica, perché sostanziata dalla memoria del passato e capace di orientare lo sguardo alla radice delle cose; quello sguardo che penetra nelle pieghe profonde dell’essere, perché sa volgersi al cielo, perché sa resistere alle lusinghe dell’oblio; quello sguardo che si esercita nella concentrazione e nel silenzio, nel dialogo e nello studio, nella comprensione e nell’applicazione creativa; quello sguardo che ha origine dall’indivisibile intelligenza della mente, delle mani, degli occhi e dell’anima.
Per evidenziare l’arkaica energia che la pervade, sia concesso a chi scrive un solo breve riferimento particolare a uno dei quadri che compongono questa grande selenografia. Lo sguardo del lettore o del visitatore si soffermi sul Trittico, che, in questo catalogo, occupa la pagina finale e che, nella sala dell’esposizione, è collocato in posizione centrale. L’opera, nella sua articolazione, ci presenta la figura dell’uomo, colto nel gesto agile ed elegante dell’atleta che corre attraverso uno spazio segnato, per metà, da un paesaggio con elementi storici e geografici riconoscibili e, per l’altra metà, da quello neutro di un non-luogo. Uno strano mondo, posto tra la terra, un tempo datrice di vita e ora resa (forse da lui stesso) inospitale, e il cielo lunare, che lo attende per assimilarlo nuovamente alla materia originaria da cui ha tratto origine. Una sintesi poietica poderosa del nostro presumibile destino, espressa con un linguaggio educato alla lezione senza tempo dell’Arte e dotato di quella potenza propria delle opere che scaturiscono dal confronto con la radice ultima delle cose.
Paolo Cecere