Forme del Vesuvio

Già il titolo incarna una sottile ambiguità: Invarianti Vesuvi. Nel primo termine si può leggere un qualcosa che non muta, che resta fisso, immobile, al pari di una coscienza serena, senza peccato, come una prua immobile in mezzo alle onde, quale quella tramandata dagli Atti degli Apostoli («essendo incappati in un luogo che aveva il mare dai due lati, vi fecero arenare la nave; e mentre la prua, incagliata, rimaneva immobile, la poppa si sfasciava per la violenza delle onde»).
Nel secondo vocabolo, i Vesuvi, si può cogliere la metafora stessa di ogni vulcano: la mostra è allargata idealmente e concettualmente ad altri simboli del fuoco, alle varie forme delle eruzioni e delle passioni interiori.
Nello stesso tempo, una sottile ambiguità è altresì offerta, in maniera pertinente, dal Vulcano Vesuvio, nella sua ambivalenza e duplicità: da un lato si manifesta la natura pacifica (anzi pacificata) del Monte Somma, resa umile e fertile, assoggettata tranquillamente all’uomo, dall’altro quella terrifica e violenta del Monte Vesuvio vero e proprio: eppure, in sostanza, i due opposti si uniscono, sia nell’immaginario, sia nelle raffigurazioni letterarie ed artistiche. Ciò ha spesso dato luogo ad una doppia sembianza, nei secoli, nella relativa iconografia: quella rassicurante della montagna placida sullo sfondo di tramonti dorati, e l’altra antitetica, aspra e spaventevole, dello sterminator Vesevo, fumante e trasmettitore di morte, così come cantato in un momento il cui il pessimismo leopardiano era alla ricerca delle origini dell’infelicità umana.
Questa dualità e diversità delle due cime del doppio monte è evidentissima nelle bizzarre incisioni seicentesche di Domenico della Acerra (Prospetto del Vesuvio e sue adiacenze), effettuate prima e dopo l’eruzione del 1631, ove le vette sono raffigurate come difformi e diseguali, contorte, quasi parlanti, e, paradossalmente, ad un tempo, come compagne invece rassomiglianti.
Ma tale assonanza e corrispondenza è ancor più accentuata in due vedute incredibilmente simili: quella del dipinto di Goethe, ritratto durante il Viaggio in Italia («la notizia che un torrente di lava stava per precipitarsi sopra Ottaviano […] mi ha indotto a visitare il Vesuvio per la terza volta. […] La massa rovente sembrava come offuscata dallo splendor vivo del sole»), e quella celeberrima, di oltre due secoli successiva, di Andy Warhol (1985) – ora al Museo di Capodimonte – (facente parte di una serie di varie vedute dell’artista americano dedicate al vulcano), chissà se ispirata alla prima.
E, ancora, da un lato ricordiamo la calma e la quiete decantate da Andersen («Il tempo era calmo e bellissimo: la lava splendeva contro il suolo buio come un’immensa costellazione»), la luminosità descritta da Gogol («Davanti a me il Vesuvio. Adesso butta fiamme e fuma. Uno spettacolo straordinario! Figuratevi un enorme fuoco d’artificio che non s’arresta per un solo minuto»), dall’altra il fortore del fumo evocato da Berkeley («Il 17 aprile 1717 con molta difficoltà giunsi sulla cima del Vesuvio. Da lì vidi una vasta cavità, piena di un fumo che mi impediva di vederne il fondo e la forma. Da questa voragine uscivano suoni straordinari, che sembravano provenire dalle viscere della montagna. Erano mormorii, singhiozzi, muggiti, scuotimenti, come onde in tempesta; e di tanto in tanto uno strepito simile a un tuono o a un cannone, accompagnato da un rumore di cocci infranti, come quello che fanno le tegole quando cadono dai tetti sulla strada») e da Mozart («Cara sorella mia, oggi il Vesuvio fuma parecchio, accidenti a tutto spiano»).

In tutto ciò si inserisce l’evento e la personale di Ludovico Maria Fusco: e non poteva non nascere da un architetto, da un docente di composizione architettonica, attento ai temi del paesaggio e della luce (tanto da aver organizzato, recentemente, un seminario internazionale su La luce e lo Spazio. Architettura e Pittura, a testimonianza dei rapporti fecondi da sempre intercorsi tra architettura e pittura), e non essere coordinato da persone che, come Anna Gianfrano, per conto della Regione, si sono attivamente occupate della valorizzazione di altre aree vulcaniche, come quella straordinariamente suggestiva della zona flegrea.
E si notano le varie forme del Vesuvio, del paesaggio – ora dolce, ora fruttifero e produttivo, ora asprigno e pungente – le luci differenti, le forme, sinuose e non, della montagna e dei tratti collinari, il contrasto tra un paesaggio naturale ed uno artificiale, in una sorta di confluenza delle arti.
Ciò ci riconduce alle immagini e alle atmosfere che tutti desidereremmo, a quelle rassicuranti, abbaglianti e luminose, liberate dall’urbanizzazione disordinata ed abusiva sviluppatasi alle pendici e alle soglie del monte.
Ogni ‘mattonella’ come tappa simbolica di un’eruzione, di quelle fuoriuscite improvvise di lava succedutesi nel tempo.
Ma nelle opere esposte si rinviene anche il tema del palinsesto, della stratificazione, sia naturale, sia architettonica, delle case mediterranee tufacee e dei loro paramenti, insomma del contesto in cui il monte dalla «ferocia tranquilla» (Renato Fucini) è avvolto e circondato e che ne costituisce, ancora, il fascino.
Ed è per tutto questo che la Soprintendenza ha voluto sostenere, culturalmente ed idealmente, l’intera operazione.

Stefano Gizzi