Andante con Iris

E’ il sogno di tutti, diciamo la verità.
Tutti sognano di poter scrivere, de/scrivere, presentare, rappresentare, contare, cantare, numerare solo con il colore, lasciare che il colore faccia linee e contorni, che ci consenta di vedere perfino l’inafferrabile punto o i volumi in piano grazie al al lusus dei grigi sapientemente giocati.
Tutti sognano di essere puro colore e di attraversare il tempo, lo spazio, le dimensioni ancora ignote a ragione dei limiti dell’orizzonte (visivo … mentale … fisico … cognitivo …).
Ludovico Maria Fusco realizza il sogno di tutti noi, entra nel colore e lo trasforma in sinuosa andatura di monte cui ora il rosso fuochigno, ora il giallo zolfino danno senso di Vulcano a noi ben noto con le sue lave, le sue colature di materie figlie della terra e perciò al contempo fertili e mortali.
Ma è architetto Ludovico e allora al colore a lui docile chiede di fare città, chiede di fare piane squadrate in forma di urbe quasi centuriata ai piedi del monte Sinuoso e riesce perfino a farci vivere nel gioco dissonante, eppure armonico, degli azzurri e dei verdi la drammatica pericolosità della situazione lì lì per esplodere nei rossi fiammanti (1×2 c).
Non è mai, però, lontano spettatore questo Artista perché del vivere attraverso i colori sembra voler fare un modus, un ritmo esistenziale cui nulla può sottrarsi, neppure un quadro già fatto, già compiuto, si direbbe, con la sua bella cornice in solido legno a chiusura: ebbene, egli fa scoppiare la cornice, per sua propria natura staticamente de-finiente, la desemantizza fino a farle rivivere il suo stato materico primevo. La riconduce ad essere legno cui dar nuova vita con una sbaffata di rossi lavici: ecco allora che il ‘retro’ di chissà che quadro da triste sconosciuto, da inerte in-visibile si fa protagonista, si fa prepotenza di linguaggio forte allo sguardo, di messaggio quasi eracliteo: la natura ama nascondersi e non sempre ciò che appare è necessariamente ciò che è.
Anche la città si ritrova a dover ‘fare i conti’ con i colori di Ludovico. Egli sa come fare: con drammatici bianchi che provano ad entrare fra i verdi di antiche speranze e gialli di soli forse avvenire ci porta verso la storia di una polis fragmentata, non più gloria di domina sontuosa, ma incerto aggregato di pezzi, ormai rete smagliata e … chissà dove ci portranno gli azzurri sfumati verso l’indaco, il cobalto, forse cieli ancora ignoti, incerti fra lastre di cinerini, ma pronte alle metempsicosi in attesa del nostro sguardo.
Anche l’acqua (1x1_75) si regala Ludovico, la lascia scorrere e fra i perlati azzurrastri puoi sentirla scivolare con rivi sottili su pareti d’aria leggera, immemore della grevità della terra mentre si fa monumento di sé, città che punta verso l’alto pronta però a dare ancora il suo grembo al verdino dell’erba tenera.
Nulla è mai chiuso, finito in questi quadri, nulla: tutto porta sempre con sé frammenti d’altri mondi chiari.
Perfino la dura fissità della sfinge abbandona la freddezza della pietra per farsi città palpitante di passioni in movimento.
No, nulla è mai fermo, nulla è ciò che sembra o ciò che credevamo di conoscere perché Ludovico, studioso raffinato, porta con sé la memoria degli elementi primi, aria acqua terra fuoco, ma più di tutto porta in sé la lezione di Empedocle, o forse degli Orfici, della nascita del mondo tutto ad opera dei ‘colori resi armoniosi da Afrodite”.

Jolanda Capriglione